
Angelo Peretti
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[Angelo Peretti]
Stavolta per ferragosto mi fermo anch'io, come accade per tanti blog e giornali on line. Ma le ferie non c'entrano. Ho bisogno di una pausa di riflessione. Sospendo le pubblicazioni di InternetGourmet. Non so per quanto. Spero per poco, ma non so.
Ecco, sì, una pausa di riflessione. Per pensare, per rivedere il mio rapporto con il vino e con il suo mondo e con il mio ruolo in quel mondo. Ruolo minore, da comparsa. Di più temo proprio di non valere.
Ho bisogno di verificare se possano esservi ancora motivazioni, essendosi affievolite, se non del tutto esaurite, quelle che sin qui mi hanno guidato.
È stato un periodo tumultuoso. Ho bisogno di interiorizzare gli eventi, i cambiamenti, gli accadimenti. Di riflettere, anche, su quest'ultima manciata d'anni di crescente dedizione, alla ricerca assidua, e talvolta troppo insistente, di un'anima del vino che oggi mi sfugge. Mi ha coinvolto con intensità. Cercavo testardamente di creare o almeno intravedere condizioni e percorsi anche laddove sembrava non potessero esistere.
Seguendone i sentieri, dalla sola scrittura, dalla compilazione di articoli, di guide o di libri, sono passato nei tre ultimi anni ad assumere anche incarichi istituzionali, ed è stata una scelta non facile per me che istituzionale lo sono stato assai raramente nei miei cinquant'anni di vita.
Sì, è stato un periodo impegnativo, faticoso, ma anche, per ampi tratti, bellissimo e gratificante. Oggi però mi sento vuoto, stanco. Ho bisogno di rintracciare le strade per uscire dalle consuetudini. Almeno di verificare se di strade ne esistano. Forse ho bisogno di sfide nuove e delle energie per affrontarle.
Lo stop coincide con il periodo delle ferie agostane, quando le visite al web si fanno meno intense. Meglio così. Mi scuso con chi si connette alla rete anche quando le città e gli uffici si fermano: mi dispiace non stare qualche minuto con loro attraverso le parole affidate al vento digitale. Ci sentiremo più avanti.
Con questo post, InternetGourmet ha superato i mille interventi pubblicati dopo la registrazione come testata on line. Un piccolo punto d'arrivo. Forse questa pausa arriva nel momento giusto.
Intanto, seguiterò a scrivere, o almeno ci proverò, ma senza pubblicare. Vorrei scrivere per me. Ho bisogno di confidarmi con la parola scritta. La scrittura è un'amica fedele. Non ci sono omissioni, men che meno bugia. Le racconto i sogni, le aspirazioni, i desideri, le convinzioni, i dubbi, i sentimenti, le passioni, la vita. Non potrei vivere senza.
Arrivederci.
Stavolta per ferragosto mi fermo anch'io, come accade per tanti blog e giornali on line. Ma le ferie non c'entrano. Ho bisogno di una pausa di riflessione. Sospendo le pubblicazioni di InternetGourmet. Non so per quanto. Spero per poco, ma non so.
Ecco, sì, una pausa di riflessione. Per pensare, per rivedere il mio rapporto con il vino e con il suo mondo e con il mio ruolo in quel mondo. Ruolo minore, da comparsa. Di più temo proprio di non valere.
Ho bisogno di verificare se possano esservi ancora motivazioni, essendosi affievolite, se non del tutto esaurite, quelle che sin qui mi hanno guidato.
È stato un periodo tumultuoso. Ho bisogno di interiorizzare gli eventi, i cambiamenti, gli accadimenti. Di riflettere, anche, su quest'ultima manciata d'anni di crescente dedizione, alla ricerca assidua, e talvolta troppo insistente, di un'anima del vino che oggi mi sfugge. Mi ha coinvolto con intensità. Cercavo testardamente di creare o almeno intravedere condizioni e percorsi anche laddove sembrava non potessero esistere.
Seguendone i sentieri, dalla sola scrittura, dalla compilazione di articoli, di guide o di libri, sono passato nei tre ultimi anni ad assumere anche incarichi istituzionali, ed è stata una scelta non facile per me che istituzionale lo sono stato assai raramente nei miei cinquant'anni di vita.
Sì, è stato un periodo impegnativo, faticoso, ma anche, per ampi tratti, bellissimo e gratificante. Oggi però mi sento vuoto, stanco. Ho bisogno di rintracciare le strade per uscire dalle consuetudini. Almeno di verificare se di strade ne esistano. Forse ho bisogno di sfide nuove e delle energie per affrontarle.
Lo stop coincide con il periodo delle ferie agostane, quando le visite al web si fanno meno intense. Meglio così. Mi scuso con chi si connette alla rete anche quando le città e gli uffici si fermano: mi dispiace non stare qualche minuto con loro attraverso le parole affidate al vento digitale. Ci sentiremo più avanti.
Con questo post, InternetGourmet ha superato i mille interventi pubblicati dopo la registrazione come testata on line. Un piccolo punto d'arrivo. Forse questa pausa arriva nel momento giusto.
Intanto, seguiterò a scrivere, o almeno ci proverò, ma senza pubblicare. Vorrei scrivere per me. Ho bisogno di confidarmi con la parola scritta. La scrittura è un'amica fedele. Non ci sono omissioni, men che meno bugia. Le racconto i sogni, le aspirazioni, i desideri, le convinzioni, i dubbi, i sentimenti, le passioni, la vita. Non potrei vivere senza.
Arrivederci.
[Veron Lee]
Finalmente, tra le viti a terrazze e i peschi a spalliera, apparve un contadino che dimostrava apertamente il suo malumore. Comunque al primo sguardo capii subito che si trattava di un caso di retorica. Mi piacciono i francesi perché amano la retorica e quando sono in Francia riesco a diventare io stessa retorica. In meno di un minuto il contadino si era ammorbidito, in meno di due era diventato cortese ed espansivo; in meno di cinque ci ritrovammo tra le mele e le pere che si stavano maturando sulle stuoie, i mantici sulfurei e la damigiane nel vano circolare della torre del castello, gareggiando l'uno con l'altro in eloquenza e distinzione dei modi.
Veron Lee, "Genius Loci", Sellerio 2007
Finalmente, tra le viti a terrazze e i peschi a spalliera, apparve un contadino che dimostrava apertamente il suo malumore. Comunque al primo sguardo capii subito che si trattava di un caso di retorica. Mi piacciono i francesi perché amano la retorica e quando sono in Francia riesco a diventare io stessa retorica. In meno di un minuto il contadino si era ammorbidito, in meno di due era diventato cortese ed espansivo; in meno di cinque ci ritrovammo tra le mele e le pere che si stavano maturando sulle stuoie, i mantici sulfurei e la damigiane nel vano circolare della torre del castello, gareggiando l'uno con l'altro in eloquenza e distinzione dei modi.
Veron Lee, "Genius Loci", Sellerio 2007
[Mauro Pasquali]
Per me che amo ben pochi Pinot Neri italiani e, quei pochi, tutti provenienti da Mazzon, una piacevole conferma, questo Pinot Nero di Elena Walch. D’altronde siamo a Glen, pochi chilometri da Mazzon e, sebbene le due località siano separate dalla vallata di Molini, godono più o meno della stessa esposizione e, forse, della stessa composizione del terreno.
La scheda del vino recita: vigneti a 650 metri con esposizione sud-ovest, pergola di 38 anni e guyot di 9, maturazione per 14 mesi in barriques parzialmente nuove.
Ecco: il risultato è quello che mi aspetto da un Pinot Nero. Un bel colore trasparente, quasi scarico con venature granate. Un naso che si apre, quasi ritroso, con erbe aromatiche di campo, un che di balsamico, piccoli frutti rossi e, poi, cuoio, liquirizia, cacao ma in modo non invadente, giocando più sui toni dell’eleganza che della forza.
La bocca è piacevolmente equilibrata, a esaltare un’alcolicità non eccessiva, la sapidità e l’acidità. Il bel frutto croccante e la speziatura riempiono piacevolmente il palato e rimangono in bocca molto a lungo. Bel finale asciutto e pulito.
Un vino pronto, da bere con piacevolezza oggi, ma con una bella aspettativa di vita davanti a sé.
Due beati faccini :-) :-)
Per me che amo ben pochi Pinot Neri italiani e, quei pochi, tutti provenienti da Mazzon, una piacevole conferma, questo Pinot Nero di Elena Walch. D’altronde siamo a Glen, pochi chilometri da Mazzon e, sebbene le due località siano separate dalla vallata di Molini, godono più o meno della stessa esposizione e, forse, della stessa composizione del terreno.
La scheda del vino recita: vigneti a 650 metri con esposizione sud-ovest, pergola di 38 anni e guyot di 9, maturazione per 14 mesi in barriques parzialmente nuove.
Ecco: il risultato è quello che mi aspetto da un Pinot Nero. Un bel colore trasparente, quasi scarico con venature granate. Un naso che si apre, quasi ritroso, con erbe aromatiche di campo, un che di balsamico, piccoli frutti rossi e, poi, cuoio, liquirizia, cacao ma in modo non invadente, giocando più sui toni dell’eleganza che della forza.
La bocca è piacevolmente equilibrata, a esaltare un’alcolicità non eccessiva, la sapidità e l’acidità. Il bel frutto croccante e la speziatura riempiono piacevolmente il palato e rimangono in bocca molto a lungo. Bel finale asciutto e pulito.
Un vino pronto, da bere con piacevolezza oggi, ma con una bella aspettativa di vita davanti a sé.
Due beati faccini :-) :-)
[Angelo Peretti]
Della serie: cose che un vero appassionato di vino non dovrebbe mai farsi mancare. Siòri e siòre ecco a voi l'unico, irrinunciabile tappo-sgabello in puro "sughero portoghese della miglior qualità". La pubblicità degli "extra large cork stools" - gli sgabelli a forma di tappo extra large - l'ho vista su Decanter. E da lì sono passato al sito The Wine Journal, che commercializza questi prodotti. E lì ho scoperto che per la modica cifra di 65,40 sterline ci si può accaparrare uno dei centottanta sgabelli a forma di tappo da Champagne da centimetri 50 (altezza) per 34 (larghezza), per un peso di 10,7 chili. "Robusti, stabili e innovativi", come dice l'annuncio, sono oggetti "super cool" e perfino "eco friendly", per via che, essendo in sughero, si possono totalmente riciclare. Ebbene, cosa aspettiamo a prendercene uno per il nostro giardino? Sai che gusto bere un bicchiere di bolle seduti su un super-tappo a fungo?In alternativa, c'è uno sgabello-tappo raso che è costruito con mille tappi di sughero l'uno appiccicato all'altro (58,80 sterline) o un tappone-sgabello che riproduce un tappo di Bordeaux del 1989 (54 sterline), entrambi, come lo champagnoso, in soli centottanta pezzi. Un'occasione. Per chi ama il genere.
[Angelo Peretti]
Urca, adesso non capisco. Vabbé che generalmente faccio fatica a bere Chardonnay (sono un bevitore A-B-C: Anything but Chardonnay, qualunque cosa purché non sia Chardonnay). Capisco anche che gli americani amino invece gli Chardonnay, e soprattutto i loro, che a volte - spesso - ci van giù pesante col legno. Capisco tutto. Ma siamo sicuri che per bere Chardonnay occorre usare un bicchiere largo stile balloon?Perché è esattamente quel che si vede sulla copertina del numero di luglio di Wine Spectator, la rivistona del vino a stell'e strisce. Numero che ha come cover story l'articolo su più di cento Chardonnay californiani valutati 90 e più punti. E c'è la foto d'un vin bianco che esce dalla bottiglia e finisce nel bicchiere. E il bicchiere è un bicchierone da rosso, un balloon, di quelli - bicchieri - che non mi piacciono proprio per niente, ché li trovo tremendamente scomodi.
Mi sbaglio io, oppure c'è da discutere sulla scelta iconografica di Wine Spectator? A meno che...
A meno che 'sti Chardonnay panciuti e cicciuti che vanno così bene negli States non siano, appunto, così grassocci e concentrati e legnosi che van serviti come fossero un rosso. Boh?
[Angelo Peretti]
Ecco, a volte ti capita di scendere in cantina e trovarci bottiglie che non ti ricordavi proprio d'avere. A me è successo con un Chianti dei Colli Semesi del Castello di Farnetella annata 1997, mica ieri. Ora, quest'è un vino "basic", e dunque berlo dopo tant'anni poteva essere una scommessa, al punto che ho portato con me un'altra bottiglia d'altro vino, temendo di trovarlo di là della sopravvivenza. E invece.
Invece il vino era in bella forma. Colore pressoché perfetto, rubino brillante con vene violacee e solo appena una sottile unghia aranciata. Naso e bocca tra il fruttato e il terroso, molto in linea con quanto m'aspetto dal sangiovese, soprattutto con qualche annetto. E un tannino vivo, integro, saldo. Unico peccatuccio: era un po' corto, ma mica si può pretendere, vivaddìo.
Per curiosità, ho voluto andare a vedere cosa ne avessero detto le guide d'allora. Ordunque, Gambero Rosso 2000, era lì che han recensito l'annata '97 del Chianti della Farnetella. Valutazione: un solo bicchiere. Testo: "Molto piacevole anche il Chianti Colli Senesi '97, un rosso che a sua volta fa della freschezza e di una bevibilità spensierata i suoi punti di forza". Be', se i vini "freschi e spensierati" sapessero tutti mostrare la sprepitosa tenuta di questo Chianti della Farnetella, direi che avremmo trovato la quadratura del cerchio.
Sommessamente dico: viva i vinini, se i vinini son questi. Pardon, codesti, alla toscana.
Ecco, a volte ti capita di scendere in cantina e trovarci bottiglie che non ti ricordavi proprio d'avere. A me è successo con un Chianti dei Colli Semesi del Castello di Farnetella annata 1997, mica ieri. Ora, quest'è un vino "basic", e dunque berlo dopo tant'anni poteva essere una scommessa, al punto che ho portato con me un'altra bottiglia d'altro vino, temendo di trovarlo di là della sopravvivenza. E invece.
Invece il vino era in bella forma. Colore pressoché perfetto, rubino brillante con vene violacee e solo appena una sottile unghia aranciata. Naso e bocca tra il fruttato e il terroso, molto in linea con quanto m'aspetto dal sangiovese, soprattutto con qualche annetto. E un tannino vivo, integro, saldo. Unico peccatuccio: era un po' corto, ma mica si può pretendere, vivaddìo.
Per curiosità, ho voluto andare a vedere cosa ne avessero detto le guide d'allora. Ordunque, Gambero Rosso 2000, era lì che han recensito l'annata '97 del Chianti della Farnetella. Valutazione: un solo bicchiere. Testo: "Molto piacevole anche il Chianti Colli Senesi '97, un rosso che a sua volta fa della freschezza e di una bevibilità spensierata i suoi punti di forza". Be', se i vini "freschi e spensierati" sapessero tutti mostrare la sprepitosa tenuta di questo Chianti della Farnetella, direi che avremmo trovato la quadratura del cerchio.
Sommessamente dico: viva i vinini, se i vinini son questi. Pardon, codesti, alla toscana.
Insomma, a me il bag in box piace, come soluzione per il vino "da tutti i giorni". Letteralmente, bag in box significa "borsa nella scatola". In effetti, il contenitore è fatto proprio così: una scatola di cartone con dentro una sacca di plastica alimentare nella quale viene immesso il vino. Il tutto è corredato da un rubinetto di plastica, che permette di spillare. Semplice. Con un vantaggio: man mano che il vino esce, la sacca si restringe e così non c'è contatto fra vino e ossigeno, e pertanto niente ossidazione. Dunque, il vino si conserva anche per settimane dopo la prima spillatura. E la scatola da 3 litri, secondo me la più pratica, sta perfettamente in frigo. Eppoi il riciclo a fine uso è rapido: si strappa il cartone, si toglie il rubinetto e i tre pezzi vanno nei contenitori della differenziata. Senza il peso e l'ingombro del vetro da buttare nelle introvabili campane.
Niente a che vedere coi brik in tetrapak: altro concetto, altra funzionalità. Meglio, molto, il bag in box.
Mi si dirà: roba da vinelli, roba da mercati di basso profilo. Obietto: nossignori. In Scandinavia il bag in box è un oggetto che invita alla convivalità, e loro, gli scandinavi, ci vogliono dentro vini di valore: si mette la scatola in mezzo alla tavola e si spilla a turno. E la diffusione non è limitata ai paesi non produttori di vino. Prendiamo la Francia: ormai il bag in box è entrato nell'uso comune. Le catene della gdo ne hanno decine e decine di referenze, allineate su intieri scaffali dei supermercati, di fronte alle bottiglie di punta. Impressionante. Ed impressiona anche vedere quanti ne vendono di bag in box: tra gli scaffali, i varchi lasciati dalle scatole vendute sono evidenti. E mica comprano i bag in box solo le casalinghe disperate o i pensionati. Un signore davanti a me alla cassa dell'Auchan di Mâcon aveva nel carrello una bottiglia di un rosé di un cru provenzale e anche un bag in box d'un altro rosé della stessa regione: probabilmente, la bottiglia per la cena festiva, la scatola per la bevuta domestica quotidiana. Eppoi nelle enoteche francesi i bag in box dei vini meglio griffati stanno in vetrina insieme alle bottiglie di valore. Durante una recente visita nel Jura ho visto che un po' tutti, anche qualcuno fra i più celebri vigneron indépendant, hanno una linea in bag in box, e non si vergognano affatto nel proporla insieme con le bottiglie. Insomma: i francesi ormai il bag in box - loro lo chiamano in sigla bib, e mi piace 'sto bib - l'hanno adottato seza problemi. Invece qui da noi siamo appena agli albori, ai primi balbettii. E i pochi bib che si trovano nella gdo in genere sono proposti accanto ai brik, alle dame da 5 litri, alle bottiglie si plastica, ai bottiglioni tappo-vite di vecchia generazione. L'immagine che diamo al bag in box, in Italia, è ancora quella del vino di caduta, di basso livello. Ed è un errore. Grave.
Niente a che vedere coi brik in tetrapak: altro concetto, altra funzionalità. Meglio, molto, il bag in box.
Mi si dirà: roba da vinelli, roba da mercati di basso profilo. Obietto: nossignori. In Scandinavia il bag in box è un oggetto che invita alla convivalità, e loro, gli scandinavi, ci vogliono dentro vini di valore: si mette la scatola in mezzo alla tavola e si spilla a turno. E la diffusione non è limitata ai paesi non produttori di vino. Prendiamo la Francia: ormai il bag in box è entrato nell'uso comune. Le catene della gdo ne hanno decine e decine di referenze, allineate su intieri scaffali dei supermercati, di fronte alle bottiglie di punta. Impressionante. Ed impressiona anche vedere quanti ne vendono di bag in box: tra gli scaffali, i varchi lasciati dalle scatole vendute sono evidenti. E mica comprano i bag in box solo le casalinghe disperate o i pensionati. Un signore davanti a me alla cassa dell'Auchan di Mâcon aveva nel carrello una bottiglia di un rosé di un cru provenzale e anche un bag in box d'un altro rosé della stessa regione: probabilmente, la bottiglia per la cena festiva, la scatola per la bevuta domestica quotidiana. Eppoi nelle enoteche francesi i bag in box dei vini meglio griffati stanno in vetrina insieme alle bottiglie di valore. Durante una recente visita nel Jura ho visto che un po' tutti, anche qualcuno fra i più celebri vigneron indépendant, hanno una linea in bag in box, e non si vergognano affatto nel proporla insieme con le bottiglie. Insomma: i francesi ormai il bag in box - loro lo chiamano in sigla bib, e mi piace 'sto bib - l'hanno adottato seza problemi. Invece qui da noi siamo appena agli albori, ai primi balbettii. E i pochi bib che si trovano nella gdo in genere sono proposti accanto ai brik, alle dame da 5 litri, alle bottiglie si plastica, ai bottiglioni tappo-vite di vecchia generazione. L'immagine che diamo al bag in box, in Italia, è ancora quella del vino di caduta, di basso livello. Ed è un errore. Grave.
Angelo Peretti
Il tema è sempre quello: la sostenibilità. Parola magica. Se non fai viticoltura sostenibile, non vali niente. Se non fai vino sostenibile non sei nessuno. La nuova liturgia è questa. Sia chiaro: sono per le politiche sostenibili, sotto il profilo ambientale, umano, economico. Ma non deve diventare una moda. Invece lo sta diventando.
Ho sentito uno dei profeti della sostenibilità affermare che i cittadini vogliono che venga coniugata la sicurezza alimentare con la sicurezza ambientale. Bravo. Però.
Il però è che tutto questo ha un costo. Economico. Ma di questi tempi mi sembra che pochi siano in grado di permetterselo, questo costo. Dunque, mi sa di demagogia. Ti racconto la storia della sostenibilità e poi ti propino il prodotto industriale. Sano, sicuro. Impersonale.
Il fatto è che se fai vino - o qualunque altro bene agroalimentare, sia chiaro - nel pieno rispetto della sostenibilità, fai una bella cosa, ma fai una cosa cara. Cara di prezzo, intendo, perché cara di costi di produzione. Costosa. Dunque, solo chi ha quattrini può permettersi di comprarlo, quel vino, quel bene. Ma ad avere quattrini è sempre meno gente, perché così si vuole, perché i ricchi devono essere pochi. Dunque, non ci credo alle politiche di sostenibilità ad ampio spettro, alla sostenibilità di massa. Non ci credo perché non puoi produrre a costo elevato e vendere a prezzo basso. Perché altrimenti fallisci. Ma se invece i conti riesci a farli quadrare lo stesso, allora c'è qualcosa che mi rende sospettoso. Il rischio è quello delle scorciatoie. Per esempio gli ogm sono una scorciatoia. Massiva, per certi versi perfino sostenibile (maggiore resistenza alle malattie significa minore uso di fitofarmaci: è sostenibilità anche questa). È lì che ci vogliono portare? Credo di sì.
Ci porteranno lì prendendoci per necessità. Temo che questo sia il disegno. Per questo occorre eliminare quello che sin qui hanno chiamato il ceto medio. S'è deciso che non serve più. Che anzi è pericoloso, perfino destabilizzante. Ci si deve tornare a dividere fra ricchi - pochi, dicevo, sempre più pochi e più ricchi - e poveri. S'è deciso che il divario deve aprirsi sempre di più. È questa l'essenza del progetto neoliberista.
S'è deciso che la libertà d'impresa non va più bene perché non è funzionale all'interesse delle multinazionali ed anzi ne disturba il dominio. S'è deciso che la libera attività della piccola impresa dev'essere gravata di lacci e laccioli, strozzata dalla burocrazia e dagli adempimenti formali, salassata da un fisco vorace, soggetta alla pressione costante e opprimente di una macchina pubblica implacabile nell'esigere il formalismo fine solo all'applicazione di nuove, irritanti, inutili sanzioni. S'è deciso che il welfare pubblico è non già un lusso, come ci raccontano, bensì un inciampo per le privatizzazioni che concentrano il controllo della sanità e della previdenza nelle mani di pochi. S'è deciso che il mais, la soia, il riso, il frumento devono avere pochi, onnipotenti padroni. Se controlli quelli, allora controlli anche la pasta, il pane, ma pure la carne, il latte (gli animali li devi nutrire). Di pochi deve essere il controllo dell'acqua. Anche il vino segue lo stesso destino, fatto da vigne tutte uguali, che producono uva tutta simile per fare vini su domanda, gestiti da pochi operatori che agiscono su larghissima scala. Anche per il vino, come per qualunque bene si debba usare per vivere, tutto deve concentrarsi sotto il controllo di pochi soggetti. Che daranno un nuovo ordine globale a questo povero mondo.
Sostenibilità, la chiamano, ed è un bel nome: suona bene, piace, ed è per questo che mi fa paura.
Il tema è sempre quello: la sostenibilità. Parola magica. Se non fai viticoltura sostenibile, non vali niente. Se non fai vino sostenibile non sei nessuno. La nuova liturgia è questa. Sia chiaro: sono per le politiche sostenibili, sotto il profilo ambientale, umano, economico. Ma non deve diventare una moda. Invece lo sta diventando.
Ho sentito uno dei profeti della sostenibilità affermare che i cittadini vogliono che venga coniugata la sicurezza alimentare con la sicurezza ambientale. Bravo. Però.
Il però è che tutto questo ha un costo. Economico. Ma di questi tempi mi sembra che pochi siano in grado di permetterselo, questo costo. Dunque, mi sa di demagogia. Ti racconto la storia della sostenibilità e poi ti propino il prodotto industriale. Sano, sicuro. Impersonale.
Il fatto è che se fai vino - o qualunque altro bene agroalimentare, sia chiaro - nel pieno rispetto della sostenibilità, fai una bella cosa, ma fai una cosa cara. Cara di prezzo, intendo, perché cara di costi di produzione. Costosa. Dunque, solo chi ha quattrini può permettersi di comprarlo, quel vino, quel bene. Ma ad avere quattrini è sempre meno gente, perché così si vuole, perché i ricchi devono essere pochi. Dunque, non ci credo alle politiche di sostenibilità ad ampio spettro, alla sostenibilità di massa. Non ci credo perché non puoi produrre a costo elevato e vendere a prezzo basso. Perché altrimenti fallisci. Ma se invece i conti riesci a farli quadrare lo stesso, allora c'è qualcosa che mi rende sospettoso. Il rischio è quello delle scorciatoie. Per esempio gli ogm sono una scorciatoia. Massiva, per certi versi perfino sostenibile (maggiore resistenza alle malattie significa minore uso di fitofarmaci: è sostenibilità anche questa). È lì che ci vogliono portare? Credo di sì.
Ci porteranno lì prendendoci per necessità. Temo che questo sia il disegno. Per questo occorre eliminare quello che sin qui hanno chiamato il ceto medio. S'è deciso che non serve più. Che anzi è pericoloso, perfino destabilizzante. Ci si deve tornare a dividere fra ricchi - pochi, dicevo, sempre più pochi e più ricchi - e poveri. S'è deciso che il divario deve aprirsi sempre di più. È questa l'essenza del progetto neoliberista.
S'è deciso che la libertà d'impresa non va più bene perché non è funzionale all'interesse delle multinazionali ed anzi ne disturba il dominio. S'è deciso che la libera attività della piccola impresa dev'essere gravata di lacci e laccioli, strozzata dalla burocrazia e dagli adempimenti formali, salassata da un fisco vorace, soggetta alla pressione costante e opprimente di una macchina pubblica implacabile nell'esigere il formalismo fine solo all'applicazione di nuove, irritanti, inutili sanzioni. S'è deciso che il welfare pubblico è non già un lusso, come ci raccontano, bensì un inciampo per le privatizzazioni che concentrano il controllo della sanità e della previdenza nelle mani di pochi. S'è deciso che il mais, la soia, il riso, il frumento devono avere pochi, onnipotenti padroni. Se controlli quelli, allora controlli anche la pasta, il pane, ma pure la carne, il latte (gli animali li devi nutrire). Di pochi deve essere il controllo dell'acqua. Anche il vino segue lo stesso destino, fatto da vigne tutte uguali, che producono uva tutta simile per fare vini su domanda, gestiti da pochi operatori che agiscono su larghissima scala. Anche per il vino, come per qualunque bene si debba usare per vivere, tutto deve concentrarsi sotto il controllo di pochi soggetti. Che daranno un nuovo ordine globale a questo povero mondo.
Sostenibilità, la chiamano, ed è un bel nome: suona bene, piace, ed è per questo che mi fa paura.
[Enrico Lucarini]
Quanto conta quello che vediamo in relazione all'appagamento che proveremo di un vino?
Si dice molto, e credo sia vero.
E quanto questo ci può condizionare/ingannare sulla vera qualità del prodotto?
Probabilmente altrettanto.
Nel caso della foto, poi, rimarreste delusi.
Il bicchiere è sorprendentemente vuoto, complice un riflesso in un padiglione di SlowFish.
Quanto conta quello che vediamo in relazione all'appagamento che proveremo di un vino?
Si dice molto, e credo sia vero.
E quanto questo ci può condizionare/ingannare sulla vera qualità del prodotto?
Probabilmente altrettanto.
Nel caso della foto, poi, rimarreste delusi.
Il bicchiere è sorprendentemente vuoto, complice un riflesso in un padiglione di SlowFish.
[Mario Plazio]
Le cantine sociali sono una cosa seria in Francia. Ricordo la Cave de Tain l’Hermitage, la Chablisienne, Les Sieurs d’Arques e molte altre. In alcuni casi sono state fondamentali per salvare una denominazione altrimenti destinata a scomparire. In Alsazia, e in questo il parallelo con il nostro Alto-Adige è molto calzante, le unioni dei produttori sono spesso sinonimo di altissima qualità proposta a prezzi fra i più competitivi. Tra queste vorrei parlare della Cave de Pfaffenheim, un colosso che negli anni ha inglobato anche le cantine dei paesi confinanti. Dispone di una serie di grand cru impressionante, ed è qui che la qualità è maggiore.
Questo Goldert (per il colore dorato del succo che ne deriva) rivela la grassezza e la materia dei riesling da terreni calcarei che si manifesta con decisi tocchi di limone confit, vaniglia (non fa legno), frutto della passione e liquirizia. Tutto sommato conserva un ottimo equilibrio globale, la mineralità resta discreta, a metà tra la pietra e l’idrocarburo. Sapida e balsamica l’uscita di bocca.
Se avesse un pizzico in più di complessità e di eleganza sarebbe ai massimi livelli, per il momento è semplicemente molto buono, e questo mi basta.
2 + faccini :-) :-)
Le cantine sociali sono una cosa seria in Francia. Ricordo la Cave de Tain l’Hermitage, la Chablisienne, Les Sieurs d’Arques e molte altre. In alcuni casi sono state fondamentali per salvare una denominazione altrimenti destinata a scomparire. In Alsazia, e in questo il parallelo con il nostro Alto-Adige è molto calzante, le unioni dei produttori sono spesso sinonimo di altissima qualità proposta a prezzi fra i più competitivi. Tra queste vorrei parlare della Cave de Pfaffenheim, un colosso che negli anni ha inglobato anche le cantine dei paesi confinanti. Dispone di una serie di grand cru impressionante, ed è qui che la qualità è maggiore.
Questo Goldert (per il colore dorato del succo che ne deriva) rivela la grassezza e la materia dei riesling da terreni calcarei che si manifesta con decisi tocchi di limone confit, vaniglia (non fa legno), frutto della passione e liquirizia. Tutto sommato conserva un ottimo equilibrio globale, la mineralità resta discreta, a metà tra la pietra e l’idrocarburo. Sapida e balsamica l’uscita di bocca.
Se avesse un pizzico in più di complessità e di eleganza sarebbe ai massimi livelli, per il momento è semplicemente molto buono, e questo mi basta.
2 + faccini :-) :-)
Stavolta giuro che non ho capito. Colpa mia, sicuro, ma non ho capito, e questo un po' mi rode. Mi riferisco all'intervento che il professor Attilio Scienza ha tenuto nel convegno svoltosi presso la Bolla, in Valpolicella, sul tema delle viticoltura di qualità (ne ho già parlato nei giorni scorsi). In particolare, c'è un passaggio che mi ha fatto pensare, ma al quale non ho trovato soluzione.
Dunque, Scienza, dopo un excursus su quant'è accaduto nel mondo del vino negli ultimi decenni, si è posto una domanda - cerco di citare abbastanza puntualmente - che è questa: "Cosa devono fare i piccoli produttori?" E si è risposto che devono non perdere la sana abitudine di produrre vini "di nicchia" (virgoletto perché sono parole sue, e a me 'sta definizione della nicchia non piace), vini "di boutique". "In questi anni - ha aggiunto - i puccoli sono scesi a molti compromessi col mercato per svuotare le cantine, ma sono usciti perdenti", e fin qui condivido.
Poi, ha continuato con la proposta di "creare vini con una forte identità, fare ciò che non possono fare gli altri, cercando finezza e nobiltà". E la finezza e la nobiltà del vino vengono dalla sintesi tra uomo e vitigno e territorio e dunque "non possono farle le multinazionalu", e anche qui concordo.
Ma è il passaggio successivo che non riesco a linkare con questi due. Scienza ha cercato di dare la "parola d'ordine dei prossimi anni" e ha suggerito questo slogan: "Dall'origine arrivare all'originalità". Insomma, il professore pensa ad un "produttore stilista" che faccia dei "vini su misura". Insomma, "dobbiamo fare come il sarto che fa vestiti su misura, scontrandosi con l'industria che ha vestiti standard". Certo, capisco, ma è quel che un piccolo produttore avrebbe sempre dovuto fare, mica altro. Ed è quel che i piccoli produttori di successo hanno effettivamente fatto. Epperò io penso che l'origine resti vitale. Interpretandola originalmente, certo, ma resta essenziale, ché il rischio è l'omologazione, la standardizzazione.
Forse sono troppo pessimista, ma il rischio è quello che Alessandro Masnaghetti ha scritto a proposito degli assaggi dei Bordeaux del 2010 - che molti definisco strepitosi - e che ho già citato in un altro mio intervento: "Poi ci sono i vini, che è impossibile non giudicare importanti, ma che in fondo - e al di là delle distinzioni che pure ci sono e avremo modo di fare nell'articolo - sono accomunati da una sensazione di uniformità, di troppo bello, di troppo perfetto (tant'è che più di una volta mi sono chiesto: che cosa ha di particolare questo 2010 che altre annate non hanno, quale è il segno distintivo che in degustazione te lo fa riconoscere - penso al 1982 o al 1996 - ... be', proprio non saprei, mi sono risposto... forse la struttura). E mi raccomando: non tiriamo in ballo storie parkeriane già masticate sui guru che manipolano il mercato e balle varie. Piuttosto pare una deriva inconscia, o se vogliamo un'ossessione, che porta a quell'eccesso di perfezione/selezione che alla lunga finisce col togliere l'anima anche ai vini più dotati. Non la barrique, non le troppe estrazioni. Solo un ecceso di cura e di attenzioni".
Scienza pensa ad una viticoltura "di precisione" che renda più efficiente la pianta. Da altre relazioni del convegno mi pare d'aver avvertito che questa viticoltura "di precisione" è di fatto un'evoluzione - o un'implementazione - dei progetti di zonazione attuati negli ultimi anni. Con le zonazioni abbiamo mappato i terreni, con le tecniche della viticoltura "di precisione" dovremmo ora conoscere le singole caratteristiche delle singole parcelle di vigneto. E dunque, lodevolmente, tarare i trattamenti nel vigneto a seconda delle specifiche interazioni pianta-suolo che esistono metro per metro. La tecnologia lo permette, e questo può voler dire - tra l'altro - meno fitofarmaci e minori costi e minore spreco di acqua, il che è positivo. Ma temo che questo voglia dire anche smussare le differenze tra un pezzo di vigna e un altro, portando tutto a maturazione nello stesso momento e con le stesse caratteristiche. Ho paura che voglia dire avere uva tutt'uguale. E che dunque vengano a mancare quelle "imperfezioni" che rendono magici i vini "di terroir". Ecco: è questo che non capisco. La produzione "da boutique" è esclusiva perché non è omologabile, non è replicabile. Altrimenti è prêt-à-porter, magari molto bello e a buon prezzo, ma non "da boutique". Dobbiamo dunque pensare ad un vino prêt-à-porter?
Ci rifletto. Butto lì un'eresia: probabilmente, dobbiamo pensare all'uno e all'altro. Forse dobbiamo fare in modo che il piccolo produttore continui a far vino "da boutique" con una viticoltura "imprecisa" e che il grosso produttore faccia vino prêt-à-porter con una viticoltura "precisa". Entrambi con la cifra stilistica dell'origine. In fondo, il made in Italy ha avuto successo così. Ma sono idee mie, magari un po' eretiche, che però mi sento, appunto, di buttar lì.
Dunque, Scienza, dopo un excursus su quant'è accaduto nel mondo del vino negli ultimi decenni, si è posto una domanda - cerco di citare abbastanza puntualmente - che è questa: "Cosa devono fare i piccoli produttori?" E si è risposto che devono non perdere la sana abitudine di produrre vini "di nicchia" (virgoletto perché sono parole sue, e a me 'sta definizione della nicchia non piace), vini "di boutique". "In questi anni - ha aggiunto - i puccoli sono scesi a molti compromessi col mercato per svuotare le cantine, ma sono usciti perdenti", e fin qui condivido.
Poi, ha continuato con la proposta di "creare vini con una forte identità, fare ciò che non possono fare gli altri, cercando finezza e nobiltà". E la finezza e la nobiltà del vino vengono dalla sintesi tra uomo e vitigno e territorio e dunque "non possono farle le multinazionalu", e anche qui concordo.
Ma è il passaggio successivo che non riesco a linkare con questi due. Scienza ha cercato di dare la "parola d'ordine dei prossimi anni" e ha suggerito questo slogan: "Dall'origine arrivare all'originalità". Insomma, il professore pensa ad un "produttore stilista" che faccia dei "vini su misura". Insomma, "dobbiamo fare come il sarto che fa vestiti su misura, scontrandosi con l'industria che ha vestiti standard". Certo, capisco, ma è quel che un piccolo produttore avrebbe sempre dovuto fare, mica altro. Ed è quel che i piccoli produttori di successo hanno effettivamente fatto. Epperò io penso che l'origine resti vitale. Interpretandola originalmente, certo, ma resta essenziale, ché il rischio è l'omologazione, la standardizzazione.
Forse sono troppo pessimista, ma il rischio è quello che Alessandro Masnaghetti ha scritto a proposito degli assaggi dei Bordeaux del 2010 - che molti definisco strepitosi - e che ho già citato in un altro mio intervento: "Poi ci sono i vini, che è impossibile non giudicare importanti, ma che in fondo - e al di là delle distinzioni che pure ci sono e avremo modo di fare nell'articolo - sono accomunati da una sensazione di uniformità, di troppo bello, di troppo perfetto (tant'è che più di una volta mi sono chiesto: che cosa ha di particolare questo 2010 che altre annate non hanno, quale è il segno distintivo che in degustazione te lo fa riconoscere - penso al 1982 o al 1996 - ... be', proprio non saprei, mi sono risposto... forse la struttura). E mi raccomando: non tiriamo in ballo storie parkeriane già masticate sui guru che manipolano il mercato e balle varie. Piuttosto pare una deriva inconscia, o se vogliamo un'ossessione, che porta a quell'eccesso di perfezione/selezione che alla lunga finisce col togliere l'anima anche ai vini più dotati. Non la barrique, non le troppe estrazioni. Solo un ecceso di cura e di attenzioni".
Scienza pensa ad una viticoltura "di precisione" che renda più efficiente la pianta. Da altre relazioni del convegno mi pare d'aver avvertito che questa viticoltura "di precisione" è di fatto un'evoluzione - o un'implementazione - dei progetti di zonazione attuati negli ultimi anni. Con le zonazioni abbiamo mappato i terreni, con le tecniche della viticoltura "di precisione" dovremmo ora conoscere le singole caratteristiche delle singole parcelle di vigneto. E dunque, lodevolmente, tarare i trattamenti nel vigneto a seconda delle specifiche interazioni pianta-suolo che esistono metro per metro. La tecnologia lo permette, e questo può voler dire - tra l'altro - meno fitofarmaci e minori costi e minore spreco di acqua, il che è positivo. Ma temo che questo voglia dire anche smussare le differenze tra un pezzo di vigna e un altro, portando tutto a maturazione nello stesso momento e con le stesse caratteristiche. Ho paura che voglia dire avere uva tutt'uguale. E che dunque vengano a mancare quelle "imperfezioni" che rendono magici i vini "di terroir". Ecco: è questo che non capisco. La produzione "da boutique" è esclusiva perché non è omologabile, non è replicabile. Altrimenti è prêt-à-porter, magari molto bello e a buon prezzo, ma non "da boutique". Dobbiamo dunque pensare ad un vino prêt-à-porter?
Ci rifletto. Butto lì un'eresia: probabilmente, dobbiamo pensare all'uno e all'altro. Forse dobbiamo fare in modo che il piccolo produttore continui a far vino "da boutique" con una viticoltura "imprecisa" e che il grosso produttore faccia vino prêt-à-porter con una viticoltura "precisa". Entrambi con la cifra stilistica dell'origine. In fondo, il made in Italy ha avuto successo così. Ma sono idee mie, magari un po' eretiche, che però mi sento, appunto, di buttar lì.
[Angelo Peretti]
A volte se ne parla a sproposito dei vin de garage. Intendo quei vini che sono fatti artigianalmente (magari proprio dentro a un garage) in numeri così piccoli da metterli fuori dai circuiti commerciali, e spessissimo fuori dai disciplinari produttivi. C'è stato un periodo, intorno agli anni Novanta, che faceva figo dire che il tuo è un vin de garage, e allora si dipingevano come tali anche vini che garagisti non lo erano proprio. Questo qui invece, l'Oblivion, è davvero un vin de garage. Lo fa a Calmasino, frazione collinare di Bardolino, entroterra veneto del lago di Garda, un giovane tecnico di laboratorio enologico. Si chiama Alessio Bigagnoli.
Ora però tocca un'ulteriore premessa: in passato, prima che, con la nascita delle doc, la tipologia venisse lasciata nelle mani dei valpolicellesi, anche in riva al Garda si faceva il Recioto, quello rosso, con la corvina, la rondinella, la molinara, insomma, le stesse uve del Valpolicella. Poi si decise che il Garda non poteva essere reciotista, e amen. Alessio ha voluto tornare a quella tradizione, e ha fatto un passito rosso con le uve bardoliniste: corvina, rondinella, molinara, oseleta, barbera, sangiovese. Tutte raccolte a Calmasino, nei campi - giusto due campi veronesi, meno di un ettaro - del papà. Il vino l'ha chiamato Oblivion, dal titolo - mi pare d'aver capito - di una canzone di un gruppo heavy metal.
Il vino nasce artigianalmente, garagisticamente. Appassimento naturale in plateaux per tre mesi. "Viene tutto vinificato in casa - dice Alessio -, nella mia cantina. Quasi tutte le operazioni (fermentazione, primo affinamento) vengono effettuate in damigiana: già, proprio in damigiane da 54 litri, perché ne produco proprio quantità esigue e non posso venderlo perché sono 'abusivo', ovvero non ho una cantina a norma anche se cerco di rispettare al massimo tutte le regole per mantenere sano il prodotto e trattarlo con strumentazione igienizzata il più possibile. Anche le bottiglie sono riciclate".
Alessio ha un sogno: sistemare una rimessa agricola, metterla a norma e farla diventare una cantina vera. In bocca al lupo. Con un consiglio: partecipare al Garage Wine Contest al Terroirvino del prossimo anno, a Genova. Intanto, se v'interessa il genere, date un'occhiata al suo simil-blog WineChateauGarage. A proposito: molte belle le etichette.
L'Oblivion reciotista bardolinista (proibito) l'ho provato: uve dell'annata 2009, calda. Colore rubino traversato da vene aranciate. Naso dapprima un po' compresso, su vene più speziate - il pepe - che fruttate, ma s'apre, con lenta progressione. In bocca tensione tannica e acida, e dolcezza però zuccherosa, un po' sopra le righe, magari aggiunta, eppoi comunque confettura e caramellina e un ritorno di succo d'uva.
La pecca, l'unica, è quello zucchero che appare slegato, fuori struttura, aggiunto, appunto: occorrerà lavorarci. Ma il vino è già interessante così, ed è per pochi.
A volte se ne parla a sproposito dei vin de garage. Intendo quei vini che sono fatti artigianalmente (magari proprio dentro a un garage) in numeri così piccoli da metterli fuori dai circuiti commerciali, e spessissimo fuori dai disciplinari produttivi. C'è stato un periodo, intorno agli anni Novanta, che faceva figo dire che il tuo è un vin de garage, e allora si dipingevano come tali anche vini che garagisti non lo erano proprio. Questo qui invece, l'Oblivion, è davvero un vin de garage. Lo fa a Calmasino, frazione collinare di Bardolino, entroterra veneto del lago di Garda, un giovane tecnico di laboratorio enologico. Si chiama Alessio Bigagnoli.
Ora però tocca un'ulteriore premessa: in passato, prima che, con la nascita delle doc, la tipologia venisse lasciata nelle mani dei valpolicellesi, anche in riva al Garda si faceva il Recioto, quello rosso, con la corvina, la rondinella, la molinara, insomma, le stesse uve del Valpolicella. Poi si decise che il Garda non poteva essere reciotista, e amen. Alessio ha voluto tornare a quella tradizione, e ha fatto un passito rosso con le uve bardoliniste: corvina, rondinella, molinara, oseleta, barbera, sangiovese. Tutte raccolte a Calmasino, nei campi - giusto due campi veronesi, meno di un ettaro - del papà. Il vino l'ha chiamato Oblivion, dal titolo - mi pare d'aver capito - di una canzone di un gruppo heavy metal.
Il vino nasce artigianalmente, garagisticamente. Appassimento naturale in plateaux per tre mesi. "Viene tutto vinificato in casa - dice Alessio -, nella mia cantina. Quasi tutte le operazioni (fermentazione, primo affinamento) vengono effettuate in damigiana: già, proprio in damigiane da 54 litri, perché ne produco proprio quantità esigue e non posso venderlo perché sono 'abusivo', ovvero non ho una cantina a norma anche se cerco di rispettare al massimo tutte le regole per mantenere sano il prodotto e trattarlo con strumentazione igienizzata il più possibile. Anche le bottiglie sono riciclate".
Alessio ha un sogno: sistemare una rimessa agricola, metterla a norma e farla diventare una cantina vera. In bocca al lupo. Con un consiglio: partecipare al Garage Wine Contest al Terroirvino del prossimo anno, a Genova. Intanto, se v'interessa il genere, date un'occhiata al suo simil-blog WineChateauGarage. A proposito: molte belle le etichette.
L'Oblivion reciotista bardolinista (proibito) l'ho provato: uve dell'annata 2009, calda. Colore rubino traversato da vene aranciate. Naso dapprima un po' compresso, su vene più speziate - il pepe - che fruttate, ma s'apre, con lenta progressione. In bocca tensione tannica e acida, e dolcezza però zuccherosa, un po' sopra le righe, magari aggiunta, eppoi comunque confettura e caramellina e un ritorno di succo d'uva.
La pecca, l'unica, è quello zucchero che appare slegato, fuori struttura, aggiunto, appunto: occorrerà lavorarci. Ma il vino è già interessante così, ed è per pochi.
[Angelo Peretti]
Ordunque, la situazione è, grosso modo, questa: in Francia ci sono i Vigneron indépendant, in Italia i Vignaioli indipendenti. I primi, i Vignerons indépendants de France, sono ben seimila e sono organizzati in trentadue federazioni dipartimentali, a loro volta riunite in undici federazioni regionali: una forza, anche sotto il profilo economico e politico. I secondi, gli italiani, sono qualche centinaio e per ora sono organizzati in un'unica federazione nazionale (la Fivi, la Federazione italiana dei vignaioli indipendenti), che ha una serie di responsabili locali: stanno crescendo, e spero crescano sempre di più.I francesi son di più anche perché hanno una lunga storia, essendo nati nel 1978, mentre per gl'italiani ci sono solo tre anni d'esperienza, visto che la fondazione è avvenuta nel luglio del 2008. Entrambe le federazioni nazionali son comunque assieme dentro alla Cevi, la Confédération européenne des vignerons indépendants, ossia la confederazione europea dei vignaioli indipendenti: i francesi hanno la presidenza, gli italiani la vicepresidenza.
Detto questo, dico che c'è una cosa che, a girare le cantine d'Italia e di Francia, balza subito agli occhi. I vigneron francesi alla loro federazione ci credono in toto, e lo dimostrano. Gli italiani sembrano ancora mostrarsi titubanti. Trent'anni di differenza nell'attività delle rispettive federazioni qualcosa vogliono pur dire, ovvio. E non so se tre decenni fa i transalpini fossero più avanti dei vignaioli nostrani. Epperò fa impressione vedere che in Francia il marchio dell'omino con la botticella in spalla, simbolo dei vigneron indépendant, viene utilizzato come emblema d'appartenenza, ma anche come vera e propria leva di marketing. E dunque lo trovi non solo sulle etichette dei vini, ma anche fuori dalle cantine, sui cartelli stradali che indicano la via per le aziende, sulle vetrine dei punti vendita dei singoli produttori, sulle casse di vino e sulle confezioni da tre bottiglie. Insomma: il marchietto della federazione è visto come un considerevole valore aggiunto. E come tale viene usato.
In Italia il marchietto della Fivi, l'omino con la cesta d'uva sulla testa e l'ombra a forma di bottiglia, ha appena cominciato a far capolino sulle capsule delle bottiglie dei soci. A Vinitaly gli associati alla Fivi mostravano anche un cavaliere di cartoncino con il logo. A dicembre (il 3 e il 4 a Piacenza) si terrà poi il primo Mercato dei vini dei vignaioli indipendenti, dove sarà possibile assaggiare e comprare. Ed è il primo passo, spero, verso l'articolazione di quegli splendidi saloni regionali che in Francia i vigneron allestiscono un po' ovunque durante l'anno, permettendo al pubbblico di acquistare direttamente dal produttore (mica le nostre millanta fiere da dove non si può portare a casa una bottiglia che sia una: del resto, qui da noi la burocrazia non aiuta).
Ma soprattutto spero che i vignaioli indipendenti italiani dimostrino di crederci per davvero alla loro federazione. E l'esposizione - orgogliosa, vivaddìo - del logo è il primo, fondamentale passo perché la federazione sia conosciuta e conti per davvero. "Il Consiglio è certo - ha dichiarato il presidente della Fivi, Costantino Charrere, all'Assemblea generale delle federazione, lo scorso 7 luglio - che il Bollino Vignaioli Indipendenti può diventare un vero ed importante veicolo di aggregazione e di mercato". Per quel che contano le mie certezze, ne sono certo anch'io. Magari, aggiungo, una gita dai colleghi francesi potrebbe far bene a molti. Soprattutto agli indecisi.
[Angelo Peretti]
Ecco, ci siamo: adesso sulle etichette ci si dovrà scrivere che il vino contiene "uova, pesce o prodotti di latteria". Proprio così. Succederà in Canada. Lo ha deciso il dipartimento della salute. Per tutelare chi soffre di allergie: questa la motivazione. E dunque sulle bottiglie ci dovrà essere scritto "contains eggs, fish, dairy" se per caso nelle chiarifiche si sono usati albumina, colla di pesce o caseina. Roba che si usa abitualmente. Ma, attenzione, si dovrà scrivere proprio "eggs, fish, dairy" - e dunque "uova, pesce, prodotti di latteria" - e mica invece, come sarebbe più corretto, "albumin, isinglass, casein" - ossia, "albumina, colla di pesce, caseina".La scelta di far dire che dentro al vino c'è il pesce o l'uovo è dovuta alla convinzione del legislatore canadese che l'informazione verso chi patisce le allergie vada fatta "nella lingua comune", e dunque nella maniera più semplice e diretta. Albumina è difficile da capire? e allora si deve scrivere uovo.
L'ho letto sul numero di agosto di Wine Spectator, articolo di Christina Zapel. Che spiega bene come funzioni la chiarifica del vino e di come quei prodotti - l'albumina, la colla di pesce o la caseina - si usino per fissare ed eliminare le impurità.
Lo si fa e lo si è sempre fatto - dico io -, ma evidentemente adesso siamo nei tempi della caccia alle streghe. Fortuna che pare - attenzione: pare, ma io non ho il testo ufficiale - che la normativa sia da rispettare solo nel caso che le sostanze teoricamente allergeniche usate in chiarifica siano effettivamente presenti come residuo nel vino. Sì, ma sei voi foste il produttore, vi fidereste a non scriverlo? Troppo rischioso. E allora avanti col vino che "contiene pesce".
[Angelo Peretti]
Ci son rimasto di sasso. Ieri (domenica) entro nello shop milanese di Eataly, al piano interrato della Coin di piazza Cinque Giornate. Tra i vini alla mescita leggo: "Soave igt 2010 - garganega, sauvignon - Anselmi - Veneto".Primo choc: Soave igt, mica doc. Santo cielo, che succede? Il Soave non è più doc?
Secondo: ma Roberto Anselmi s'è rimesso a fare Soave dopo che aveva abbandonato la denominazione un bel po' d'anni fa?
Vado a vedere gli scaffali dei vini. Trovo questa targhetta: Soave San Vincenzo 2010, e il San Vincenzo è appunto uno dei vini più noti di Anselmi, ma non è Soave, bensì un igt bianco del Veneto, per scelta - ripeto - del produttore, uscito dalla doc ormai da più di dieci anni.
Direte: quelli di Eataly Milano si son sbagliati. Dico: può essere, ma se fossi al Consorzio di tutela del Soave un po' mi girerebbero. Perché il Consorzio soavista ha fatto di recente un investimento d'un certo rilievo proprio per promuovere la denominazione del Soave presso Eataly. A New York. Già, alla neonata Eataly New York il mese di maggio è stato il "Soave Month", il "Mese del Soave", o così almeno ho letto sui comunicati stampa. E dopo un mese di promozione nella nuova location americana di mister Farinetti e della sua Eataly, che succede in Italia? Succede che all'Eataly di Milano viene venduto come Soave un bianco della zona di Soave, buono fin che si vuole, ma che Soave non è, essendo, per legittima scelta del produttore, un vino a indicazione geografica, e non un doc.
Oh, sia chiaro: Farinetti e Eataly son liberi di vendere quel che vogliono, e Roberto Anselmi i vini li sa fare e li fa piacevoli, e dunque chi compra una di queste bottiglie (o beve uno dei bicchieri alla mescita) si trova bene. Però non è Soave e invece lo vendono scrivendo Soave.
Che il Consorzio abbia qualcosa da dire al Farinetti testimonial del Soave a Nuova York? Sì, credo che qualcosa l'amico Arturo Stocchetti, presidentissimo del Consorzio soavese, lo dovrebbe proprio dire, e confido che lo dica.
[Annie Ernaux] Talvolta, mi dicevo che passava forse un'intera giornata senza pensare un secondo a me. Lo vedevo alzarsi, prendere il caffè, parlare, ridere, come se io non esistessi. Questa differenza con la mia propria ossessione mi riempiva di stupore. Com'era possibile? Ma lui stesso si sarebbe meravigliato di sapere che non lasciava la mia mente dal mattino alla sera. Non v'erano ragioni per trovare più giusto il mio atteggiamento o il suo. In un certo senso, io avevo più fortuna di lui.
Annie Ernaux, "Passione Semplice", BUR 2004
Annie Ernaux, "Passione Semplice", BUR 2004
[Angelo Peretti]
Per chi cerca i rossi caldi - che hanno cioè sia il calore dell'alcol, ma ben modulato, sia quello del sole, e soprattutto questo: il sole - il sud-ovest della Francia è fertilissimo terreno. Cahors, per esempio, offre vini nel contempo e densi e bevibili e longevi e solari.Chi volesse farsene un'idea assaggi - beva - questo Cahors del 2007 di Château du Cèdre. Uve soprattutto di malbec - al novanta per cento, credo - con un pizzico di tannat e di tannat.
Il colore è rosso cupo, con sfumature nere e violacee. All'olfatto porge il frutto maturo di bosco, intenso ma non marmellatoso, e un che di pepato. La bocca è ampia, vellutata, calda di solarità, eppure anche fresca, e fruttata di mirtillo e prugna selvatica e amarena. Un bell'equilibrio, che fa pensare a un potenziale notevole in termini di longevità.
Due lieti faccini :-) :-)
[Angelo Peretti]
Mi piace bere bollicine. In particolare, e soprattutto, Champagne. Ma faccio generalmente un po’ fatica ad andare d’accordo con lo Champagne Rosé, che pure concettualmente mi intriga, perché amo il pinot noir, e a dar colore è lui, il vitigno borgognone. Epperò non riesco totalmente a godermelo, e se poi aggiungo che in genere i prezzi sono un po’ più cari d’altri vini “in bianco” della medesima maison, be’, normalmente scelgo il bianco.In genere, il colore rosa viene da una parte più o meno ampia di pinot noir torchiata e dunque leggermente macerata. O da un’aggiunta di pinot noir in rosso al momento della ritappatura. O dalla saignéé, dal salasso del pinot noir, macerato dunque per tempi non lunghi. Ma c’è di tutto e di più, fra gli stili di cantina.
Di solito – ma non è certo una regola aurea - i rosé de saaignée piacciono a chi ama il pinot noir in rosso (ti pare proprio di bere un pinot nero con le bolle), mentre chi cerca di più l’approccio champagnista “classico” tende a favorire lo chardonnay tagliato con un po’ di pinot noir brevemente macerato. O almeno così penso.
Di recente ho aperto nove bottiglie di Champagne Rosé con un gruppo d’amici. Con noi c’era Brice Lejeune, giovanissimo vigneron dello Champagne che sta facendo uno stage in Italia. Ovviamente abbiamo bevuto anche il suo vino. O meglio, come dice lui, il vino che fa suo padre, Luc.
Vediamo com’è andata.
Champagne Rosé Brut Premier Cru Vertus Veuve Fourny et Fils
Robert Parker gli ha dato 93 centesimi, e li vale. Pinot noir “aggiustato con un tocco di chardonnay”, dice l’azienda. Il pinot noir si sente: fragola, lampone e spezia, nitidi, fascinosi. E confettura di albicocca. E lunghezza.
Tre lieti faccini :-) :-) :-)
Champagne Rosé Brut Grand Cru Varnier-Fanniere
Il 90% è chardonnay, il resto pinot noir vinificato in rosso. Se al naso trovi un po’ di scontrosità, in bocca è invece da subito slanciato, ampio, spettacoloso nei suoi toni di frutto rosso, di pasticceria, di spezia.
Tre lieti faccini :-) :-) :-)
Champagne Rosé Brut Premier Cru Didier Herbert
La cuvée prevede un 50% di chardonnay, un 30% di pinot noir e un 20% di pinot meunier, ed è dunque vino “maschio”. Ed è anche vino buonissimo: grande beva, avvolgente, fruttata, floreale. C’è la brioche, la spezia dolce.
Tre lieti faccini :-) :-) :-)
Champagne Rosé Brut Michel Furdyna
Che mi piaccia lo Champagne Reserve di Furdyna l’ho scritto varie volte. Non avevo ancora bevuto il Rosé. Eccolo qui. Il colore rubino carico fa pensare, come in effetti è, a un rosé de saignée. Il naso appare un po’ chiuso, ma in bocca c’è convincente croccantezza fruttata e pepe. Bel vino.
Due faccini e quasi tre :-) :-)
Champagne Rosé Brut Lejeune
Il vino del giovane vigneron ospite. Metà chardonnay, metà pinot noir, il 30% del quale macerato per meno di due settimane. Bel fruttino, succoso. Freschezza in rilievo, sale. E finezza. E complimenti dunque a papà Luc. Vende solo in cantina, e il prezzo è piccolo: bene!
Due faccini e anche qualcosa in più :-) :-)
Champagne Rosé Brut Olivier et Bertrand Bouvret
Interamente da pinot noir, è stato premiato col coup de coeur dalla guida Hachette. Al naso è apparso un po’ ostico. La bocca è invece ampia: frutta matura, brioche, spezia. Freschezza, sale. Forse ha bisogno ancora d’un po’ di bottiglia.
Per ora, un faccino e quasi due :-)
Champagne Rosé Brut Cuvée Tradition Hemerence
Uno Champagne Rosé “base” a piccolo prezzo per la categoria. Tutto pinot noir. Frutto maturo, frutta secca. spezia.
Un faccino :-)
Champagne Rosé Brut Esprit Henri Giraud
Fatto per il 70% con il pinot noir, per il 22% con lo chardonnay e per l’8% col pinot di Aÿ in rosso. Acidulo, fragola stramatura, spezia, ma a mio avviso un po’ scomposti.
Un faccino un po’ scarso :-)
Champagne Rosé Brut Cuvée Rosée Veuve E. Devaux
Bottiglia probabilmente degorgiata da poco, e dunque riottosa, chiusa. Va rivista. Per ora, prevale quel sentore di canna da fucile che caratterizza molti Champagne troppo giovani per i quali sia stato usato tanto chardonnay, e qui lo chardonnay abbonda.
[Angelo Peretti]
Del convegno sulla viticoltura di qualità che s'è tenuto di recente alla Bolla, in Valpolicella, e di alcune delle riflessioni che mi ha generato, ho già scritto qualcosa ieri. Epperò qui voglio soffermarmi sull'intervento di Emilio Pedron, che è l'uomo che portò la Bolla dentro al Gruppo Italiano Vini e che è oggi il presidente del Consorzio di tutela della Valpolicella, e che insomma è uno degli uomini più influenti nel mondo del vino in Italia.Cos'ha detto Pedron di così rilevante? Ha detto una cosa in cui credo fermamente: "I nostri territori, le nostre denominazioni di origine, possono ancora crescere e possono essere considerati un marchio collettivo. Ma la lealtà di chi opera sul territorio e con un marchio collettivo deve essere notevole". Sono - lo ripeto - totalmente d'accordo: le doc sono da considerare né più né meno come dei marchi collettivi, sui quali è bene che si crei valore e verso i quali si può e deve pretendere che tutta la filiera sia leale.
Pedron è stato abbastanza tranchant: "Sono sicuro - ha aggiunto - che l'Italia non ha molte scelte da fare. L'Italia è schierata. L'unica prospettiva è riorganizzarsi. La strada del vitigno è persa. Occorre riorganizzarsi attorno alle denominazioni".
Vero. Concordo anch'io sul fatto che sia pressoché inutile tentare di affermare dei "vin di vitigno". Come ha detto Pedron, il pinot grigio ce lo siamo fatti scippare, la barbera pure, adesso toccherà - sta toccando - al moscato (del resto - dico io - anche i francesi si son fatti scappare cabernet, merlot, chardonnay) e l'unico che abbiamo "salvato" è stato il prosecco, cambiandogli nome - al vitigno - in glera e facendo della doc Prosecco una denominazione con riferimento geografico (un paesino friulano).
Dunque, aggiungo, se abbiamo perso la battaglia dei vitigni, almeno cerchiamo di vincere quella dei territori. E di quei marchi collettivi - le doc, quelle vere, quelle buone - che quei territori - quelli buoni, quelli veri - rappresentano.
[Angelo Peretti]
La parola d'ordine è sostenibilità. Va di moda, fa tendenza. Dovrebbe anche far vendere il vino. Pardon: dovrebbe aiutare a fare una viticoltura di qualità, più pulita, e dunque più sostenibile, e a far vendere meglio il vino.Mi piace che si parli di viticoltura (di agricoltura) sostenibile. Mi piace che ci si preoccupi del riscaldamento globale del pianeta, della riduzione dell'uso della chimica nei campi, della gestione dell'acqua, dei costi energetici. Mi piace che si discuta di biodiversità. Mi piace tutto questo, e dunque m'è piaciuto anche che il tema della viticoltura di qualità, quella appunto più sostenibile, sia stata al centro di un convegno presso le cantine Bolla, in Valpolicella. Convegno voluto e coordinato da un enologo-manager che stimo come Christian Scrinzi. Ma ho tanti dubbi. Uno in particolare: non è che sta succedendo quel che ho già visto nelle banche nell'ultima quindicina d'anni?
Cerco di spiegarmi.
Nella seconda metà degli anni Novanta e poi nei primi anni del nuovo millennio, nelle grandi banche italiane ed estere andò per la maggiore il tema della social responsibility, della responsabilità sociale dell'impresa. Da lì, si arrivò, come evoluzione, alla social sustainability, la sostenibilità sociale dell'impresa, e dunque quando sento parlare di "sostenibilità", ecco, mi viene un po' l'orticaria.
Il fatto è questo. Secondo la stakeholder theory, la teoria dei "portatori di interesse", tutto nel "fare banca" doveva essere fatto nel nome della responsabilità sociale. Mettendo in primo piano il ruolo dei vari stakeholder nella generazione e nella distribuzione del valore dell'impresa. E dunque, spazio ad azionisti, clienti, dipendenti, comunità locali, fornitori. Solo che in un contesto di stampo neoliberista, l'interesse dei primi, gli azionisti, ha finito man mano per sorpassare (e annichilire) quello degli altri. Il processo di concentrazione bancaria ha spinto verso logiche spesso esasperate di massimizzazione del profitto nel breve periodo, accantonando le strategie di medio-lungo periodo (più lente nella "creazione di valore", ossia nell'ottenimento degli utili), strapagando i manager perché gli obiettivi reddituali "sfidanti" fossero raggiunti presto (con premi iperbolici per il management), assegnando ai dipendenti budget sempre più spinti verso i ricavi, anche a scapito della qualità del servizio. Per generare profitti ancora maggiori per l'azionista (divenuto lo stakeholder principe nella teoria della responsabilità sociale d'impresa), si è arrivati a mettere in campo la cosiddetta "finanza creativa". Il risultato di quella finanza che creativa lo è stato un po' troppo lo stiamo pagando tutti sulla nostra pelle da tre anni: prima la grande crisi finanziaria, ora una delle peggiori crisi economiche di sempre. Forse la peggiore in assoluto, e non ne stiamo uscendo. Anche perché in troppi casi a dettare le ricette per l'uscita dalla crisi sono gli stessi che la crisi l'hanno generata ed alimentata.
Ecco, sì, lo so: ad aver generato la "grande crisi" nella quale ci dibattiamo sono state le esagerazioni, le esasperazioni. Però sono esagerazioni ed esasperazioni nate "a fin di bene", per massimizzare la "creazione di valore" per l'azionista e quindi magari sotto il cappello - o meglio, dietro il paravento, la maschera - della "sostenibilità sociale". Ecco: quel che mi fa paura è che la via dell'infermo è lastricata di buone intenzioni, e temo che possa essere vero anche in agricoltura, anche in viticoltura.
La domanda che (mi) pongo è una: non è che con la buona intenzione della "sostenibilià" finiremo per avere una "viticoltura di precisione" (altra parola d'ordine) che standardizzerà ed omologherà ancora di più il vino? Che livellerà, appiattirà: ad un livello alto, certo, ma privo di quelle splendide "imperfezioni" che rendono il vino così diverso da ogni altra bevenda?
In tutto questo - a fronte di questo mio dubbio - almeno c'è un aspetto importante, ed è che se ne parla. E dunque il mio plauso - per quel che conta - va anche alla Bolla e a Scrinzi e a un convegno che mi ha fatto pensare. E di cui probabilmente ancora parlerò, per chi avrà la pazienza di leggermi.
[Mario Plazio]
Prodotto dalla équipe dell’eccellente Château Clos Haut-Peyraguey e proveniente dalle vigne non classificate come premier cru, questo Sauternes è un ottimo affare per gli appassionati di vini dolci o moelleux, come dicono i cugini d’oltralpe.Il 1997 è oggi perfetto da bere, con un naso di liquirizia e più sulle note confit che non sulla botrytis (pesca in confettura, menta, fichi). Al palato colpisce l’elegante ossidazione che lo rende etereo e ne bilancia la naturale concentrazione. E poi quella netta sensazione di zafferano, davvero bellissima. Finale lungo e denso su ricordi di frutta secca.
Rispetto ai fratelli maggiori manca ovviamente di raffinatezza, ma rimane un ottimo liquoroso che si può reperire ad un prezzo onestissimo. Io l'ho abbinato ad una crème brulée alla liquirizia ed è stato semplicemente perfetto.
Due faccini :-) :-)
[Angelo Peretti]
Il 23% dei vigneti trentini è a pinot grigio. Una quota considerevole. L'ascesa è stata esponenziale: il pinot grigio rappresentava solo l'1,6% del totale nel 1980 e il 6,4% nel 1990. Nel 2000 la percentuale era del 13%. Ora, come ho detto, è oltre il 23% e oltre. A far di più c'è solo lo chardonnay, con il 28,2%. Crollata la schiava, che è precipitata dal 34% del 1980 al misero 3,9% di oggi. I dati li ho presi dal volume "La vitivinicoltura in Trentino 2011", uscito nella collana periodica di studi e ricerche sull’economia del Trentino della Camera di Commercio di Trento.Perché li ho presi? Perché nei giorni scorsi si è parlato sul web (su Aristide e su Vino al Vino) di un'intervista che Fabio Piccoli, giornalista, uno dei "saggi" chiamati a cercar di risolvere i problemi del vino trentino, ha rilasciato al quotidiano L'Adige, proponendo di "trentinizzare" il pinot grigio. Dice Fabio: "Nessuno nega ai colossi la necessità di continuare ad esportare Pinot grigio sul mercato Usa, ma il Trentino non può essere un contenitore di prodotti anonimi. E allora trentinizziamolo, il Pinot grigio: il Trentino deve essere un valore aggiunto superiore all’etichetta 'delle Venezie'"
Bene, trentinizziamo il Pinot Grigio (vino). L'idea ci sta: può dare valore aggiunto. E dunque avanti: aspetto di poter avere qualche dettaglio in più per capire di cosa si tratti e con quali strumenti ci si possa arrivare, ma mi sembra interessante.
Però la vedo difficile. In primis perché di Pinot Grigio ormai al mondo ce n'è dappertutto, e a questo punto il Pinot Grigio trentinizzato rischia di essere una goccia nell'oceano, a prezzi oltretutto necessariamente troppo alti rispetto a quel che c'è in giro (che facciamo, lo trentinizziamo per svenderlo? non avrebbe senso).
Faccio due calcoli. Nel rapporto che ho citato sopra vedo che in Trentino nel 2010 si son prodotti 326.812 quintali di pinot grigio (uva). Vedo poi che la superficie vitata a pinot grigio (vitigno) è di 2351 ettari. Faccio il calcolo e ottengo che la resa per ettaro è intorno ai 139 quintali: il dato fila, la fonte è attendibile (non avevo dubbi). Ora, partendo da questi dati faccio due conti, e presupponendo una resa in vino del 70%, ottengo che la produzione totale di Pinot Grigio (vino, non importa che sia doc o igt) dell'intero Trentino può cubare 228.800 ettolitri. In termini di bottiglie, sono 30,5 milioni. Tanto, ma non tantissimo.
Tanto come singolo vino d'una singola provincia, per carità, ma pur sempre poco meno del Bardolino o la metà del Soave. Poco poi se pensiamo ai mega-impianti della cooperazione trentina. Trentinizzare il Pinot Grigio non basta, perché dal Trentino escono fiumi di Pinot Grigio "delle Venezie" a indicazione geografica (ma non sono riuscito a trovare i dati: chi mi aiuta?), e di fatto gli impianti di imbottigliamento trentini mettono nel vetro - credo - parecchio vino che proviene dal Veneto o dal Friuli. Quasi che i trentini fossero dei "terzisti" per la produzione vinicola delle due altre "Venezie". La mia impressione - non suffragata dai numeri e quindi potenzialmente errata - è che gli impianti trentini abbiano assoluta necessità di imbottigliare "anche" vino che viene da fuori. Per ammortizzare i costi. Magari mi sbaglio. Però bisogna fare i conti con l'ipotesi che tutto 'sto Pinot Grigio delle Venezie igt ora imbottigliato nel Trentino possa rischiare di essere messo in crisi dalla nascita della nuova doc Venezia. Che prevede come varietale il Pinot Grigio. La criticità potrebbe avere doppia origine. Da un lato, penso che parecchio pinot grigio (uva) veneto possa finire nella doc Venezia anziché nell'igt delle Venezie. Dall'altro ho il dubbio che ora che c'è il Pinot Grigio Venezia doc possa aprirsi un contenzioso sulla legittimità di continuare a imbottigliare il Pinot Grigio delle Venezie igt. Ripeto: è solo un dubbio, mica son certo, ed anzi credo che una simile limitazione rischierebbe di scatenare un tortuoso iter giudiziario. Epperò mi domando: in tale denegata ipotesi (bello il termine "denegata", vero?) ce la farebbero gli imbottigliatori trentini a far fronte ad un'eventualità del genere?
Trentinizziamo, dunque, d'accordo. Ma non basta. E attendo di poter conoscere il resto.
[Norman Maclean]
La mamma disse, come se al risveglio si fosse trovata Regina per un Giorno: "Paul ha preparato la colazione per tutti". Questa frase fece piacere a Paul, tanto da strappargli un sorriso di mattina presto, ma quando me la servì, la colazione, lo guardai da vicino e vidi che aveva gli occhi iniettati di sangue. I pescatori, però, considerano lo stravolgimento da sbronza una cosa normale: dopo un paio d'ore passate a pescare i sintomi scompaiono tutti, tranne la disidratazione, ma a quel punto si è immersi in acqua per una giornata intera".
Norman Maclean, "In mezzo scorre il fiume", Adelphi 1993
La mamma disse, come se al risveglio si fosse trovata Regina per un Giorno: "Paul ha preparato la colazione per tutti". Questa frase fece piacere a Paul, tanto da strappargli un sorriso di mattina presto, ma quando me la servì, la colazione, lo guardai da vicino e vidi che aveva gli occhi iniettati di sangue. I pescatori, però, considerano lo stravolgimento da sbronza una cosa normale: dopo un paio d'ore passate a pescare i sintomi scompaiono tutti, tranne la disidratazione, ma a quel punto si è immersi in acqua per una giornata intera".
Norman Maclean, "In mezzo scorre il fiume", Adelphi 1993
[Angelo Peretti]
Mi piacciono i vini affilati. Ecco, sì, dritti come una rasoiata. Tesi come un colpo di fucile sparato fra le montagne, con l’eco che ti riporta il tuono e lo rinnova una, due, dieci volte, e poi è silenzio, ma ancora la testa rintrona. Mi piacciono i vini che nulla concedono alla ruffianeria, e se c’è dolcezza, allora è compensata dalla freschezza, magari umorale, perfino a tratti collerica. Mi piace la semplicità minimalista, che è però semplice solo nella distrazione, e invece chiede ed anzi pretende concentrazione e condivisione e passione per coglierne le sfumature, le dieci, cento vibrazioni in minimo ma costante cambiamento, come spesso accade per la vita, per la quotidianità che non è mai uguale, anche se sembra tale. Mi piacciono i vini che hanno lunghezza, ma che prendono una strada rettilinea e vanno avanti su quella dall’inizio alla fine del viaggio, senza tentennamenti, senza indecisioni, senza soste, senza deviazioni, senza tortuosità, solo cambiando a tratti, talora quasi impercettibilmente, la velocità, il ritmo, il movimento. Mi piacciono i vini dinamici, mai fermi, mai sazi, indomabili. Mi piacciono i vini nervosi, che rifuggono la malia dell’autocompiacimento, la vanità dell’ostentazione. Mi piacciono i vini che vibrano nel palato come un diapason che risuona con i miei pensieri, e che mi sollecitano la rapidità della riflessione e talora della decisione, bene prezioso per me, eternamente indeciso. Mi piacciono e me li godo, checché ne pensi la gente.[Angelo Peretti]
Vuoi vedere che non abbiamo capito niente? Intendo, noi italiani che pensiamo che le nostre regole valgano ovunque, quando si tratta di vino. E la regola numero uno - cui credo molto, quando si parla d'Italia - è quella che il vino è fatto per il cibo, per la tavola. Nossignori, questa regola non vale niente - o vale poco - quando si va negli Stati Uniti. Parola di James Laube. Che ne parla nel suo editoriale sul numero di giugno di Wine Spectator, invitando a "buttar via i libri delle regole".L'esordio dell'articolo è questo: "È una buona cosa che i bevitori di vino americani non siano schiavi delle regole o delle tradizioni. Intendo sia la vecchia scuola di pensiero sui posti adatti per bere, sia i 'corretti' abbinamenti fra cibo e vino". Queste regole non valgono, perché - dice Laube a proposito dell'America - "considerando come mangiamo, e senza parlare di cosa mangiamo, se bevessimo vino solo quando siamo seduti a tavola, molti di noi finirebbero a malapena un bicchiere di vino, nelle pause pranzo da un quarto d'ora di corsa". Niente da fare: vino e cibo non funzionano, negli Stati Uniti. "Il vino in America è diventata una bevanda ricreativa": scrive Laube. Perché non è possibile definire, codificare quel che si mangia generalmente in America: arrivano suggestioni da ogni angolo del mondo, e dunque il cibo riflette quello stesso "melting pot" - la "pentola ribollente" - che è tipico della società americana. E c'è un'ampia libertà mentale, in fatto di cibo. Dunque, le regole del vecchio mondo lì non valgono.
"Gli americani - dice Laube - bevono vino in ogni tipo di circostanza nella quale non ci sia il cibo. Di fatto, in ogni circostanza in cui non sia proibito bere. La gente beve vino perché gli piace il suo gusto e perché contiene alcol. Il fatto che ci si goda la maggior parte del vino al di fuori dell'esperienza dello star seduti a tavola la dice lunga sul come e sul perché siano cambiati gli stessi stili di vino. E sul perché la maggior parte della gente presti poca attenzione agli abbinamenti cibo-vino. Se la principale ragione per la quale la gente beve vino è perché gli piace il suo sapore, questo evidenzia il perché i vini di oggi siano di solito costruiti attorno alle suggestioni dei profumi e della trama. I vini che sono troppo magri (o alti d'acidità), troppo tannici o troppo alcolici non sono attraenti per un mercato così vasto come invece lo sono i vini carnosi, succosi di frutto e potenti nel corpo. Questo non vuol dire che un grasso, burroso Chardonnay sia l'ideale per un piatto di ostriche (l'Albariño lo è). Ma funziona bene lo stesso per molta gente. Vi siete mai chiesti il perché le steak house vendono così tanto Chardonnay? Quel che ieri sarebbero sembrati degli strani accostamenti tra cibo e vino spesso offrono delle piacevoli sorprese".
Insomma: niente regole, il banco è saltato. Quel che conta è il vino in sé, che deve piacere a prescindere dalla sua collocazione a tavola o fuori tavola. E quel che piace agli americani è un vino "all'americana". Gli americani bevono liberamente. bevono quel che hanno voglia di bere, e non gl'interessa se ci sia insieme del cibo e neppure - se c'è - quale cibo ci sia insieme. Chi esporta negli Stati Uniti ne dovrebbe tener conto. E magari chi va ad investirci dovrebbe cominciare a chiedersi se valga la pena pagare cene e cuochi per promuovere il vino negli States: forse servono ben altri codici di comunicazione. Senza forse.
"Se un vino ha un buon gusto, il vino va bene. Tutto il resto viene dopo" dice James Laube, sintetizzando l'opinione dei bevitori a stelle e strisce. Ecco: teniamolo in mente.
[Angelo Peretti]
Ordunque, chi ancora ricordasse la piccola epopea del mio vinino, di cui scrissi un Elogio che ha fatto parlare abbastanza di sé sul web, e ne condividesse tuttora i contenuti - votati alla valorizzazione di quei vini che sono semplici ma per nulla banali, e che si bevono che è un piacere - be', sappia che questa Schiava dell'Alto Adige rientra perfettamente nella categoria. Un vinino, di quelli buoni.Del resto, che la Vernatsch di Gumphof sia tra quelle da tenere costantemente sott'occhio per gli amanti del genere è cosa nota.
Che beva che ha questo 2010! Fresco, speziatino e fruttatino come vuole una vera Schiava. Ha la fragolina, il ribes, un che di marasca.
Al naso l'ho trovato subito un po' chiuso - come talvolta accade per le Schiave - ma in breve s'è aperto verso il frutto.
Buono. Se capitate in Alto Adige, non perdetevelo.
Due lieti faccini e quasi tre :-) :-)
[Angelo Peretti]
Estate, e si gira per le vacanze. Chi scegliesse il Trentino, sappia che ha una lettura da fare. Un ricettario. Nuovo. Di cucina tradizionale, a volte sapientemente riadattata. Si chiama "Cucina trentina. I prodotti tipici e le ricette della tradizione" e nasce da una coedizione della Casa Editrice Panorama e di Terra Ferma. Costa 12 euro, che non è grande spesa. Ha foto grandi e descrittive, opera di Cristiano Bulegato. I testi sono di due giornalisti che stimo e che ho l'onore di contare fra gli amici: Giuseppe Casagrande e Nereo Pederzolli. Ho condiviso più volte con loro la tavola e la bottiglia. Trentini entrambi, ovviamente. Il primo all'Adige per una vita, l'altro in Rai.Ecco, se ci son due giornalisti e due persone che difficilmente avrei pensato di veder firmare un libro insieme sono il Giuseppe e il Nereo. Che son così diversi l'uno dall'altro. Il primo ha l'aria del lord inglese o del signore germanico, posato, pacato, conciliante, sempre a puntino. L'altro è vulcanico, a tratti bizzoso come un cavallo, perennemente in tenuta da trekking. Eppure eccoli qui a co-firmare il libro della loro trentinità enogastronomica.
Giuseppe Casagrande parla di cucina e di prodotti: la polenta di Storo, la carne salada, gli strangolapreti, lo smacafàm e il tortèl de patate, i formaggi e via discorrendo. Nereo Pederzolli dice di vino: il Trentodoc, il Teroldego Rotaliano, il Marzemino, la Nosiola, il Müller Thurgau. Di entrambi son da memorizzare i capitoletti introduttivi delle rispettive materie: Casagrande spiega come quella trantina sia "una cucina di frontiera", Pederzolli disserta di "viti e vini del Trentino".
Ovviamente, diversi sono gli stili descrittivi. Che riflettono gli opposti caratteri dei due. E dunque la prosa di Giuseppe è distesa, riflessiva, didascalica. Quella di Nereo è scoppiettante.
Un assaggio (e mai termine fu più adatto) degli stili lo posso dare citando gli incipit delle rispettive trattazioni.
Scrive Casagrande: "Semplice, schietta, genuina, ma soprattutto ruspante: sono gli aggettivi che meglio di altri identificano la cucina trentina. Una cucina che per secoli ha dovuto fare i conti con le ristrettezze economiche di un territorio aspro e difficile (dal punto di vista geografico, ma non solo) e che - anche per queste ragioni - è stata etichettata come 'povera'".
Scrive Pederzolli: "In alto, talmente in quota che più su non vive. La vite, sulle Dolomiti, è uno dei più importanti indicatori ambientali. Sancisce limiti, scandisce il territorio. Senza tentennamenti. È la pianta che meglio interpreta la fatica dei montanari. Gente che dalla propria vigna ha sempre ricavato sollievo non solo economico".
Credo bastino queste citazioni, queste prime poche righe delle rispettive narrazioni, per convincere che vale la pena rintracciare il libro. Ma poi c'è il ricettario, che mette appetito. Ricette, dicevo, quasi tutte di tradizione, interpretate da vari ristoratori tridentini. Canéderli in brodo, crostini di milza in brodo, mòsa, polenta smalzada, tonco de pontesèl, sguazét. Mi viene fame.
[Mario Plazio]
Gitton dispone di un incredibile patrimonio di vigne a Sancerre, che copre tutti i diversi tipi di suolo presenti sul territorio. È l’unico, almeno a quanto mi risulta, a vinificare individualmente ogni singolo vigneto, tanto che le etichette proposte dalla cantina sono circa una quindicina. In questa zona nascono i più grandi sauvignon del mondo, dotati di grande freschezza e capacità insospettate di invecchiamento.La vigna Les Herses produce dei vini che emergono per la grande sensazione di mineralità che riescono a comunicare. Negli anni di maturità risicata ricordano a tratti un Riesling tedesco per gli aromi di idrocarburi. Questo 2000 invece propone un minerale sassoso, con un frutto maturo che però non diventa esotico. È poi speziato, agrumato, e alla fine arrivano il kiwi e il melone. L’acidità vibrante di cui è dotato ben si sposa ad una materia matura, ma senza eccessi. In nessun momento prevalgono le note varietali, e questo è uno degli aspetti che più mi intrigano dei vini prodotti a Sancerre.
Due faccini e mezzo :-) :-)
[Angelo Peretti]
Normalmente, ho una certa ritrosia nei confronti dei vini a igt, a indicazione geografica. Prendetelo come un mio personalissimo pregiudizio, ma ritengo che se c'è su un certo territorio una denominazione d'origine, l'impegno del produttore dovrebbe andare verso la doc, non verso l'igt. Ma ci sono, come sempre nella vita, le eccezioni. Per esempio, ti trovi per le mani una buona vigna d'una varietà che non è prevista dal disciplinare della doc, e allora che ci fai? Allora ci inventi un igt.Dev'essere capitata grosso modo così ai Lenotti, famiglia bardolinese di produttori di Bardolino, quando comprarono una vigna a Cavaion, nell'entroterra del "mio" lago di Garda. Claudio Lenotti, figlio di Giancarlo, patron dell'azienda, mi ha raccontato che quando acquistarono quelle terre ci trovarono, oltre alle uve della doc bardolinista, anche del rebo. Per chi non lo conoscesse - e credo che parecchi possano non conoscerlo - il rebo è un vitigno che nasce dall'incrocio fra il merlot e il teroldego. Si chiama così perché a idearlo fu Rebo Rigotti, che guidava l'Istituto agrario di San Michele all'Adige, nel Trentino. Ebbene, avevano il rebo e dovevano decidere che farne, in attesa di metter mano al riassetto della vigna. Decisero dunque d'appassirlo, per dare un contributo ulteriore a un igt in stile valpolicellese. Poi però, col tempo, s'accorsero che quel rebo aveva un che di speciale, e allora decisero di cambiare rotta: un altro igt, ma stavolta da uve surmaturate in vigna. Mettendo insieme grosso modo metà rebo e metà corvina delle terre bardoliniste. E usando per la vinificazione solo l'acciaio. È così, suppergiù, che è nato il Capomastro, un igt del Veneto.
Ora, sono qui a scriverne perché del Capomastro, per motivi del tutto fortuiti, ho avuto modo di tastare, a brevissimo giro, il 2008 e il 2009, e mi son piaciuti entrambi. Colore rubino abbastanza profondo, senz'essere però cupo. Naso un po' riottoso a bottiglia appena aperta, e s'apre con lentezza, ma anche con intrigante progressione, verso il pepe e la violetta e la mora e pian piano di fa più complesso. In bocca il match lo giocano le spezie e il frutto (amarena, mora) stramaturo. Ma c'è slancio, e la freschezza tipica delle terre moreniche lacustri. E un che di selvatico e selvaggio. E comunque una notevole beva. Rustica eleganza, per nulla appariscente.
Ecco, è vino insieme complicato e bevibile. E mi spingerei a parlare financo di eleganza. Col 2008 più sulla spezia e il 2009 più sul frutto, com'è giusto che sia in due annate così differenti l'una dall'altra.
Mica son qui a dire che è il capolavoro dell'enologica venetica, però mi piace, e l'ho bevuto ben volentieri. E dopo averlo bevuto, a Claudio sono andato a chiedere il prezzo, e m'ha detto che in azienda lo vendono, a privati, attorno ai 5 euro. E io dico che trovarne di vini così. E attendo il parere di chi legge.
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